giovedì 1 maggio 2025

Cara Zia

Cara Zia

Con immenso amore e riconoscenza ti scrivo queste parole di ricordo; sono ancora scossa e incredula dalla tua perdita, ma sono grata per averti avuta accanto fino ad ora.

Sei stata una donna speciale, una grande moglie, mamma, sorella, maestra generosa, amorevole, affettuosa, onesta, divertente, ma soprattutto coraggiosa, decisa e determinata.

Sei stata sorretta da una fede profonda che ha contribuito ad alleviare e forse a dare un senso alle sofferenze e ai dolori che hai provato nella tua lunga vita. Sei andata via nella domenica delle palme è questa è stata la tua ultima testimonianza: vivere nella pace, nella concordia e nell’unità sempre. Per me sei stata un esempio, la persona sulle quale contare sempre, la mia seconda mamma. La fotocopia di tua sorella alla quale eri profondamente legata. 

Mi sei stata sempre vicina e, nonostante la distanza, sempre pronta con zio Biagio a raggiungerci a Torino nei momenti di bisogno e a fare festa nei momenti più felici. 

Con te ho trascorso tutte le estati della mia infanzia e adolescenza, prima a casa dei nonni e poi a casa tua e di zio Biagio, sempre pronto ad accogliermi con la sua allegria e affetto.

Faccio tesoro dei tuoi pensieri, dei nostri discorsi e dei preziosi consigli che mi hai dato e conservo nella memoria i tanti momenti trascorsi insieme a te e a mia mamma.

Prego il Signore perché possa dare la forza a zio Biagio e a tutta la famiglia e a tutte le persone a lei care di affrontare la tua assenza, certa che veglierai sempre su tutti noi. 


Carmela

mercoledì 19 marzo 2025

Piripicchio

Piripicchio


Michele Genovese meglio noto con il nome d’arte Piripicchio (Barletta, 5 luglio 1907 – Bitonto, 1º agosto 1980) è stato un attore, comico, artista di strada e mimo italiano.

Biografia

Piripicchio, definito il "Charlie Chaplin pugliese", è stata una delle ultime maschere della Commedia dell'Arte in Italia. Vestiva con frac, bombetta, un paio di baffetti alla Charlot e un garofano rosso all'occhiello. L'accessorio caratteristico e parte essenziale della coreografia era il bastone di bambù, che era solito armeggiare. Spesso lo puntava a terra per poi afferrarlo al volo, accompagnando con gesti allusivi le sue battute argute, vivaci e, talvolta, spinte.

Di solito al pomeriggio improvvisava piccoli spettacoli di strada, ai quali assisteva sempre una moltitudine di ogni età e ceto. Vi erano spettatori sia per strada che affacciati alle finestre o ai balconi, i quali, al termine dell'esibizione, gli elargivano nella bombetta qualche moneta oppure sigarette da esportazione, ringraziandolo così di quelle piccole evasioni dalla vita quotidiana che egli offriva.

Il povero Piripicchio non cercò la ricchezza, se non quella interiore datagli dal pubblico che lo stimava e, soprattutto, dalla gioia di vedere i ragazzini accorrere felici, quando sentivano suonare il tamburo che lo annunciava, e seguirlo rumorosamente, quando si spostava. Con la sua morte, l'avanspettacolo povero ha perso il suo ultimo testimone e, forse, anche uno dei suoi esponenti più sinceri.

«Piripicchio. Si chiamava Piripicchio. Era un attore. Aveva scelto Piripicchio come nome d'arte, ma, all'anagrafe di Barletta, dov'era nato, risultava come Michele Genovese. Era un attore povero, recitava per strada come i grandi giullari di razza fine di un tempo. E del giullare aveva il talento a forti tinte, la faccia mobilissima, la voce intonata e stentorea. E il volto, il volto che, in certi casi, casi miracolosi, è un paesaggio, in Piripicchio era una parapettata di teatro eterno con quinte, fondali, spezzati ed arlecchine. Forse Michele Genovese non ha mai recitato al chiuso di un vero palcoscenico di un teatro col sipario di velluto, le scene e il cielo di carta.

Le sue scenografie erano la sua faccia e le vie e le piazze di Puglia. Molti lo ricorderanno: era una figuretta elegante e paradossale, grottesca e poetica. Un dandy rusticano che si muoveva nella ammiccante ed eccessiva eleganza di un tight consunto dalle angherie di tournée defatiganti per polveri assolate e strade spalancate al sole. Completavano il costume un cravattino comme il faut e un bastoncino di bambù. Non mancava mai di ostentare un fiore bianco e freschissimo all’occhiello. Un clown nostro che si aggirava instancabilmente con il suo repertorio antico più che vecchio, intrecciando lazzi da vaudeville con memorie di perdute atellane, frizzi candidamente osceni, canzoni malinconiche intarsiate di sberleffi improvvisi con filastrocche sull’amore e sulla lontananza.»

(Michele Mirabella nella prefazione di L'ultima mossa. Omaggio a Piripicchio di Angelo Saponara)

Il suo sogno di esibirsi nel teatro Piccinni di Bari venne esaudito nel giugno del 1977. Nel corso di una serata presentata da Gianni Roman, per premiare i vincitori della prima marcialonga dei tre ponti di Bari, un giovane poeta dialettale, Vito Bellomo, si prestò per accompagnare, con la chitarra di un noto comico barese, Piripicchio, che eseguì la celebre" Era un bel giorno di maggio...", commuovendosi e ringraziando Vito Bellomo.

Il Comune di Bari con una cerimonia svoltasi il 26 settembre 2007, gli ha intestato una strada che sbocca su Piazza Ferrarese (Città vecchia) nei pressi del Fortino di Sant'Antonio.


Fonte Wikipedia


martedì 18 marzo 2025

Trequanda

Trequanda 

Origini del nome

Il nome Trequanda lo si fa derivare dal toponimo etrusco Tarkonte, mitico eroe etrusco o da terram quandam, "una certa terra", ovvero "particolare".

Storia

I primi insediamenti furono certamente etruschi come dimostrano ritrovamenti archeologici e nomi dei luoghi (Cennano, Sicille, Malcensis, Asso) per poi passare dalla dominazione romana a quella dei Longobardi e Franchi. Documenti storici del 1198 parlano per la prima volta di Trequanda, feudo dei Cacciaconti della Scialenga, famiglia di origine franco-salica a cui l'imperatore Ottone IV nel 1211 accordò il permesso di riscuotere gabella di pedaggio nella corte e nella terra di Trequanda. Per la sua posizione dominante fu continua l'ingerenza della Repubblica di Siena nelle questioni trequandine finché nel 1255 impose la sua giurisdizione. All'epoca della guerra tra Firenze e Arezzo il castello fu rifugio dei ghibellini e dopo la sconfitta degli aretini nella battaglia di Campaldino del 1289 la guelfa Siena minacciò di radere al suolo il castello. Ceduto dai Cacciaconti ai Franzesi di Staggia nel 1309 per 18 000 lire, il castello passò definitivamente sotto la balzana senese. Nel 1552 entrò a far parte del Granducato di Toscana. Nel 1774 è aggregata alla podesteria d'Asciano con Petroio e Montisi; Castelmuzio fu unito alla comunità nel 1833. Oggi del comune di Trequanda fanno parte le frazioni di Castelmuzio e Petroio, due borghi medioevali che conservano il fascino del tempo passato nelle viuzze in pietra, nelle chiese e nei palazzi. Montisi ne è uscito nel 1877.


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Fonte Wikipedia 

sabato 8 marzo 2025

Mimosa

Mimosa simbolo italiano della festa della Donna


L’8 marzo è la Festa della Donna (Giornata Internazionale dei diritti della Donna): il fiore simbolo è la mimosa. La nascita della ricorrenza risalirebbe a un incendio in un’industria in cui persero la vita molte lavoratrici. È un’occasione di festa per ricordare l’importanza della lotta per i diritti delle donne e la parità.

Lorenzo 8.3.25

mercoledì 5 marzo 2025

Melusina

Melusina


«Da dove credi dunque che vengano, venissero - le Melusine delle campagne dei boschi delle valli? - Le Melusine delle vecchie montagne? - Gentili fumacchi impalpabili come aerei semi - fanno da staffetta agli uomini poverelli - verso le ultime postreme stazioni confinarie… …Vengono dai piccoli pertugi neri - del tronco preistorico e secco - perlustrato dalle formiche a miriadi… …O se la campagna vede scendere la sera, - e i ciuffi i gruppi di faggi di carpini di querce - di alberi antichi stanchi strampalati - si rinchiudono neri, - allora dalle radici dei fossi escono le Melusine.»

(Dino Buzzati, Poema a fumetti)

Melusina è la Fata-Sirena fondatrice della casata dei Lusignano, definita "Nostra Signora di Lusignano".

La leggenda

Nella storia della Fata-Sirena, più fedelmente descritta nelle antiche tradizioni celtiche, si narra di un cavaliere di nome Raimondino che involontariamente uccide lo zio durante una parata di caccia e, disperato, trova rifugio presso una fonte d'acqua situata nelle profondità di un bosco; lì incontra tre splendide fanciulle, tra cui vi è proprio Melusina. Raimondino se ne innamora e le chiede di sposarlo. La ragazza accetta la proposta - poiché a sua volta affascinata dal cavaliere - ma a condizione che un giorno a settimana ella resti da sola nella sala da bagno ed esorta il futuro marito a non incontrarla mai in quel giorno.

Questo apparente tabù permette a Melusina di stare da sola con sé stessa nella sua completa essenza di Essere Magico e nel contempo permette al futuro marito di provare la lealtà alla promessa fatta.

Il matrimonio si rivela subito fonte di grandi benedizioni per Raimondino, che seguendo le sapienti indicazioni della moglie, risolve ogni disputa e appiana ogni problema che si presenta, e fonda quella che sarà conosciuta come "la casa dei Lusignano", ma questa felicità viene presto turbata dalle malevoli dicerie del fratello dell'uomo circa l'abitudine di Melusina di isolarsi un giorno a settimana.

Condizionato dai pensieri tendenziosi del fratello, Raimondino non resiste alla tentazione e si accinge a spiare la moglie sperando di coglierla in fallo. Ma quando si avvicina furtivamente alla stanza segreta dove vi è Melusina, egli rimane sgomento nel vedere che la moglie possiede dalla vita in giù una coda di pesce. Infatti, Melusina è un Fata appartenente alla razza delle Sirene.

Le conseguenze della slealtà di Raimondino verso la promessa fatta alla moglie, si rivelano tragiche: più tardi i due sposi hanno una lite e Raimondino chiama la moglie serpente. Melusina, capito tutto, non perdona la promessa infranta, e vola via senza esitazione, gettando Raimondino nella più vile disperazione.

Questo resoconto fa emergere la tipica debolezza umana di fronte a ciò che non si conosce. Invece di avvicinarsi maggiormente al mondo della moglie, fino a quel momento evidentemente sconosciuto, Raimondino mostra sentimenti di orrore, indignazione e paura, oltre ad aver messo in dubbio la fedeltà della moglie (che è stata sempre eccellente) preferisce credere piuttosto alla menzogna, spacciata da un individuo di discutibile attendibilità.

Le vicende della Fata-Sirena Melusina furono rivendicate legittimamente dai Lusignano, vantando la loro discendenza dalla donna, consolidata dall'opera "francesizzata" (e anche cristianizzata) dallo scrittore Jean d'Arras.

Le più antiche notizie sulla natura della Fata-Sirena Melusina risalgono al XII secolo. Possibili origini si trovano già in saghe pre-cristiane, greche, celtiche, così come nella cultura del Vicino Oriente. In qualità di leggenda storico-genealogica, risale alla famiglia Lusignano della regione francese di Poitou.

Nel corso del tempo i testi sono cambiati drasticamente. La Melusina, apparsa come Fata o Dea nei romanzi cortesi del Medioevo, divenne sempre più frequentemente progenitrice cristianizzata di alcune famiglie. In seguito, venne data più enfasi all'amore tragico. Fino al XX secolo Melusina fu popolare in alcune culture europee. Adattamenti del nome sono presenti in molte lingue europee. In seguito persero in parte la loro importanza.

Nel Folklore francese Melusine è una fata, ultima di tre gemelle. Il padre era il re d'Albania, mentre la madre era una fata. Quest'ultima aveva espressamente richiesto al marito di non entrare per nessun motivo nella stanza del parto finché lei stessa non avesse acconsentito. Poiché il marito le disubbidì, lei lo abbandonò portando con sé le figlie. Non contenta, Melusina condannò il padre per le sofferenze recate alla famiglia mandandolo in esilio all'interno di una montagna, ma la madre la punì trasformandola in metà donna e metà serpente.

Influenze nella cultura di massa.

Nel romanzo Nadja di André Breton la protagonista Nadja rivela di sentirsi affine al personaggio di Melusina, al punto da "acconciarsi con 5 trecce e lasciarsi una stella in cima alla fronte". In tutto il romanzo, nei suoi disegni, Nadja si rappresenta come creatura per metà donna e per metà pesce.

Nella serie televisiva The White Queen, tratta dai romanzi di Philippa Gregory, la protagonista, la regina Elisabetta Woodville viene descritta come discendente della dea acquatica Melusina, pertanto in grado di manipolare il tempo e di scagliare incantesimi o anatemi.

Nel libro Notte di tempesta di Shannon Drake viene detto che la casata dei Plantageneti ebbe origine quando il conte Folco rimase incantato da una melusina che sembrava essere intoccata dal fuoco, egli la sposò, avendo da lei due figli, ma su insistenza dei prelati che avevano notato le stranezze della donna e la descrivevano come una figlia di Satana, la costrinsero ad assistere ad una messa completa. Durante la celebrazione la melusina tentò di fuggire senza riuscirci e le sacre recitazioni la fecero sparire, ma non prima che ricordasse ai presenti che i suoi figli avrebbero sempre portato nel sangue il carattere saturnino e violento.

Melusina è oggetto di studio da parte dei protagonisti del romanzo Possessione di Antonia Susan Byatt.

La casa editrice Meltemi ha intitolato a Melusine una sua collana.

La cantautrice francese Nolwenn Leroy le ha dedicato una canzone dal titolo Mélusine contenuta nell'album Histoires Naturelles del 2005.

Nel videogioco Genshin Impact le Melusine sono una razza umanoide civilizzata di ragazze-pesce diffusa in tutto il territorio di Fontaine, nazione rappresentante l'elemento Hydro ed ispirata alla Francia del periodo rinascimentale.

Araldica

In araldica, la melusina (nome comune) è una figura chimerica ispirata alla fata Melusina, ed è una variante della sirena, da cui differisce solo per l'acqua del bagno: il mare ondoso della "sirena" è un tino da bagno per la "melusina". Alcuni autori danno il nome di melusina alla "sirena con la coda doppia".

D'argento, alla melusina di carnagione, capelluta d'azzurro, marinata di rosso, con lo specchio d'oro e il pettine dello stesso, nel tino di verde


Fonte Wikipedia

domenica 2 marzo 2025

Pietra leccese

Facciata della Chiesa di Santa Croce (Lecce) in pietra leccese


«Neglette, e quasi molli in ampia massa,

le pietre a Lecce crea l'alma Natura:

ma poiché son rescise, in loro passa

virtute, che le pregia, e che l'indura:

mirabili a vederle, ò se vi si lassa

scelti lavor la dedala scultura,

ò se ne fanno i dorici Architetti

gran frontespitij con superbi aspetti.»


(Ascanio Grandi, I fasti sacri, 1635)

La pietra leccese (in dialetto salentino leccisuru) è una roccia calcarea appartenente al gruppo delle calcareniti marnose e risalente al periodo miocenico. È un litotipo tipico della regione salentina, noto soprattutto per la sua facilità di lavorazione

Composizione ed estrazione

Questa roccia ha una composizione piuttosto omogenea infatti l'esame petrografico rivela che è costituita principalmente da carbonato di calcio (CaCO3) sotto forma di granuli di calcare (costituito da microfossili e frammenti di macrofossili di fauna marina, risalenti a circa sei milioni di anni fa) e di cemento calcitico, a cui accessoriamente si possono trovare glauconite, quarzo, vari feldspati e fosfati, oltre a sostanze argillose finemente disperse (caolinite, smectite e clorite), che, nelle diverse miscele, danno origine a differenti qualità della roccia.

La pietra leccese affiora naturalmente dal terreno e si estrae dal sottosuolo in enormi cave a cielo aperto, profonde fino a cinquanta metri e diffuse su tutto il territorio salentino, in particolare nei comuni di Lecce, Corigliano d'Otranto, Melpignano, Cursi e Maglie. Il leccisuru viene ricavato in forma di parallelepipedi di varia dimensione; l'estrazione è semplice poiché si lascia incidere facilmente. Durezza e resistenza della pietra, una volta estratta, crescono con il passare del tempo, e nella consolidazione la pietra assume una tonalità di colore ambrato simile a quella del miele. Di colore dal bianco al giallo paglierino, la roccia si presenta compatta e di grana fine, a differenza del carparo, altro litotipo affine rinvenibile nella stessa zona.

Utilizzo

Utilizzata sia in campo architettonico che scultoreo, la pietra leccese deve la sua particolare lavorabilità alla presenza di argilla, che permette un modellamento al tornio e persino manuale. Apprezzata in campo artistico, ha raggiunto stima internazionale grazie all'artigianato locale che nel corso dei secoli ha prodotto la complessa architettura del Barocco leccese. Esempi significativi sono i fregi, i capitelli, i pinnacoli e i rosoni che decorano molti dei palazzi e delle chiese di Lecce, come ad esempio il palazzo dei Celestini e l'adiacente Chiesa di Santa Croce, la Chiesa di Santa Chiara e il Duomo.

La natura stessa della pietra la rende molto sensibile all'azione meccanica degli agenti atmosferici, all'umidità di risalita del terreno, alla stagnazione di acqua e allo smog. Per rendere il leccisu più resistente alle intemperie, i maestri scultori dell'epoca barocca usavano trattare la roccia con del latte vaccino o caprino; latte di calce. Il blocco di pietra leccese veniva spugnato o immerso interamente nel liquido; il lattosio, penetrando all'interno delle porosità, creava uno strato impermeabile che preservava la pietra fino a portarla, quasi inalterata, ai giorni nostri.

Nota sin dall'antichità, nella Terra d'Otranto si ritrovano dolmen, menhir, statue e costruzioni romane fabbricati in leccisu. I suoi primi studi geologici risalgono alla seconda metà del XVI secolo, ma si deve a Gian Battista Brocchi, nel suo studio sulla configurazione geologica salentina (1818), l'identificazione, la prima datazione (fra Secondario e Terziario) e l'origine del nome della pietra leccese. Al suo interno, cavatori e paleontologi hanno rinvenuto fossili rilevanti di cefalopodi, delfini, capodogli, denti di squali, pesci, tartarughe e coccodrilli. Attualmente, l'artigianato della pietra leccese produce souvenir e opere d'arte.


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sabato 1 marzo 2025

Papasidero e la grotta del Romito

La grotta del Romito



 Papasidero è un comune italiano di 591 abitanti della provincia di Cosenza in Calabria.

Geografia fisica

Il suo territorio, compreso tra 75 e 1463 metri di altitudine, è la riserva naturale orientata della Valle del fiume Lao (D.M. Ambiente - luglio 1987) e fa parte del parco nazionale del Pollino. Alle pendici della collina su cui si erge scorre il fiume Lao lungo il quale i turisti sono soliti praticare lo sport del rafting.

Storia

Il nome deriva dal greco Papàs Isidoros, un monaco bizantino basiliano di un monastero greco-ortodosso della zona. Alcuni storici calabresi ritengono che Papasidero sia sorto nel territorio dell'antica città greca di Skidros, una delle colonie di Sibari che faceva da collegamento tra Sibari e Laos e che il nome derivi da essa.

Simboli

Lo stemma e il gonfalone del comune di Papasidero sono stati concessi con decreto del presidente della Repubblica del 21 dicembre 1978.

«D'azzurro, ad una montagna di tre vette al naturale, sormontata da tre stelle d'oro raggiate di otto, disposte 1, 2. Ornamenti esteriori da Comune.»

Le stelle alludono a sidereus ("stellato") per assonanza con il toponimo, sovrastanti la rupe sulla quale sorge il paese. Il gonfalone è un drappo troncato di bianco e di azzurro.

Monumenti e luoghi d'interesse

Da visitare il santuario di Nostra Signora di Costantinopoli del XVII-XVIII secolo e il sito archeologico della Grotta del Romito. Caratteristico è il centro storico di impianto medievale con alla sommità del borgo la chiesa madre di San Costantino e il castello normanno-svevo. La cinta muraria medievale presenta delle antiche porte d'ingresso al borgo tra cui si conserva ancora quella del cambio della Guardia.


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giovedì 27 febbraio 2025

Matteo Renato Imbriani

Matteo Renato Imbriani


Matteo Renato Imbriani (Napoli, 28 novembre 1843 – San Martino Valle Caudina, 12 settembre 1901) è stato un politico italiano, esponente del Partito radicale storico.

Biografia

Figlio del letterato Paolo Emilio Imbriani, originario di Roccabascerana, seguì il padre in esilio ed ebbe una ferrea educazione, dapprima in un collegio privato di Torino, poi in un collegio militare.

Nel 1859 combatté coi sardo - piemontesi, nel 1860 fu con Garibaldi a Castel Morrone. Nel 1866, capitano, combatté nel Trentino. Successivamente si recò in Francia, per rilevare la salma del fratello Giorgio, caduto nel 1870 a Digione, contro i Prussiani. Per oltre 40 anni ha custodito a casa sua l'urna con i resti di Pilade Bronzetti, che vennero consegnati dalla moglie Irene alla città di Trento il 27 settembre 1921.

Il primo contatto con la realtà irpina, dove poi soggiornerà a lungo negli anni finali della vita, ci fu nel triennio 1872-1875 quando con la moglie si stabilì a San Martino nella casa di famiglia, ma, nonostante il forte legame alle origini della famiglia, trascorse solo pochi anni a San Martino Valle Caudina (AV). Questo primo e breve periodo di soggiorno nella Casa Giulia, per ragioni di salute e per affari politici, non lasciò alcun segno evidente nella vita politica del paese. L'insuccesso delle sue candidature nelle elezioni di quella provincia lo testimonia.

Veri centri della sua attività politica furono Napoli e la Puglia, che lo elesse deputato nei collegi di Trani e di Corato. Anche a lui si deve la realizzazione dell'Acquedotto Pugliese. Un articolo del Corriere delle Puglie riporta, dalla penna del suo direttore Martino Cassano (nonostante la profonda avversione tra i due), l'appassionata dialettica con cui l'On. Imbriani sottolineò la necessità per la Puglia di un acquedotto funzionale, in seno ad una riunione tematica tra buona parte dei deputati pugliesi convocata dall'allora Presidente della Provincia Lattanzio.

Morì nella sua amatissima Casa Giulia il 12 settembre 1901. La moglie Irene Scodnik è stata il suo più attendibile biografo.

Monumenti commemorativi

Nella sua ultima abitazione è presente una lapide, fregiata da rame bronzeo, di quercia e d'alloro, con una magnifica nobilissima iscrizione.

 «(Napoli) Matteo Renato Imbriani ammoniva da questa casa il popolo prediletto d'intendere con opera animosa e costante alla integrità e alla libertà d'Italia minacciate da rissose ambizioni, insidiate da colleganze codarde. Il sodalizio democratico, ricordando il magnanimo cittadino e proseguendone l'opera, ravviva la sua fede nella vittoria dell'Ideale. XX Settembre MCMV.»

(Epigrafe di Mario Rapisardi)

Dopo la sua morte molte altre lapidi furono a lui dedicate: ad Ariano di Puglia il 20 settembre 1902; ad Avellino sulla facciata del Palazzo dei Tribunali 26 ottobre 1902 dove si legge un'epigrafe di Giovanni Bovio e ovviamente a San Martino Valle Caudina fatta dall'onorevole Roberto Mirabelli. Anche sulla facciata del palazzo comunale di Poggio Mirteto vi è, dal 1911, una lapide che ricorda come "apostoli della libertà" lui ed Andrea Costa.

A Barga (LU) sulla terrazza del Caffè Capretz, allora ritrovo della nobiltà locale, vi è una lapide, composta da Giovanni Pascoli, che ne ricorda la presenza:

«" Da questa terrazza

 il tre di agosto del 1897

Antonio Mordini e Matteo Renato Imbriani

contemplarono il tramonto

e il sole illuminando le fronti severe e serene

dei due apostoli dell'ideale

sembrava ricingere di un fulgor di gloria

le due forti generazioni che fecero l'Italia.

Sole che quando tramonti non fai che promettere l'alba

 sia dell'italica idea sia della gloria così"»

Nel nord-est del centro storico di Perugia vi è una via denominata Matteo Renato Imbriani; Parma gli ha invece intitolato una delle principali strade del caratteristico quartiere dell'Oltretorrente. Anche ad Altamura, Roma, Trieste, Catania, Zafferana Etnea, Sesto Fiorentino, Lecce, Barletta, Trani, Canosa di Puglia, Napoli, Afragola, San Giovanni Rotondo, Bisceglie, Mola di Bari, Rutigliano, Minervino Murge, Spinazzola, esistono strade a lui intitolate. Un'imponente statua in bronzo nel centro storico, una via ad essa adiacente e una scuola media sono state a lui dedicate a Corato (BA). A Canosa di Puglia, al centro di una piazza a lui intitolata, si erge maestosa la sua statua in bronzo al disopra di un piedistallo in pietra. Anche ad Andria, nella piazza a lui intitolata, primario nodo viario della città, si trova un suo busto su piedistallo in pietra. A Bari gli è stata dedicata anche una scuola media oltre all'omonima via dove si trova la scuola. Sulla facciata del Municipio di Poggio Mirteto vi è una targa che ricorda un suo comizio. Nel 2015 è stato posto il suo busto in bronzo su piedestallo di pietra davanti alla facciata del municipio di San Martino Valle Caudina.


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mercoledì 26 febbraio 2025

Grisolia

Grisolia

Grisolia (Grìsulia in calabrese), è un comune italiano di 2 157 abitanti della provincia di Cosenza, facente parte del Parco nazionale del Pollino. Inoltre, il comune si affaccia sulla costa tirrenica dell'alto Tirreno della Calabria.

Geografia fisica

Curiosa è la sua posizione geografica, infatti è arroccato su un colle ed è separato dal vicino abitato di Maierà da un burrone (i due paesi distano solo 900 metri in linea d'aria).

Ben noto centro balneare, Grisolia si trova al centro della Riviera dei Cedri con la sua felice posizione a 465 metri di altitudine. Inoltre fa parte del Parco nazionale del Pollino per oltre 33.300 ettari, dove, a 1905 metri s.l.m., si trova il versante occidentale del Monte La Mula, la quota più alta raggiunta da un comune italiano con sbocco al mare.

È un'area ad alta biodiversità dove i castagni secolari (castagno del ramarro) ne sono i simboli. La presenza del capriolo autoctono e del lupo appenninico, sono i caratteristici simboli faunistici del territorio montano; sui costoni del La Mula, il Pino Loricato, simbolo del Pollino, ne impreziosisce la biodiversità. Inoltre in Località Pantanelli è presente un'area attrezzata e una sorgente.

Il territorio comunale risulta essere molto eterogeneo, estendendosi dal Litorale sul Mar Tirreno, dove è posta la frazione Acchio, al versante occidentale del Monte La Mula, posto alla quota di 1905 metri sul livello del mare.

Il paese presenta tre nuclei abitativi: la zona nuova o lido a ridosso del mare, la zona intermedia presso la stazione ferroviaria o zona marina ed il nucleo del centro storico.

Storia

Centro di origine medioevale, il cui nome, secondo alcuni studiosi potrebbe essere derivato dal greco Chrousolea o dal latino Chrisena, che in entrambi i casi significa oro. Non è bene certo se si riferisce alla particolare fertilità delle sue terre o se invece veramente c'era la presenza di miniere d'oro.

Nel territorio del Monte la Mula, fin dalla preistoria, vennero sfruttate vene metallifere dalle quali furono estratti diversi metalli, tra i quali rame, ferro e oro.

Monumenti e luoghi d'interesse

Il centro storico

L'interno di Grisolia è un intrico di vicoli, scale, archi e supporti. I vicoli sono innumerevoli e diversi tra loro per lunghezza e larghezza. Una caratteristica dell'architettura del centro storico e il supporto, in dialetto lo spuortu, tratti coperti dove le case sono una addossata all'altra. Particolarmente diffusa nelle costruzioni, è la pietra di Grisolia. Molto usati nella copertura dei tetti sono i coppi d'argilla, in dialetto ceramili. Questo motivo appare così diffuso tanto da potersi considerare ricorrente nell'edilizia grisoliota. Questi ultimi formano con l'attaccatura al muro una smerlatura di singolare effetto. Le mura sono lasciate grezze e non intonacate.

I palazzi si distinguono per mole, stile ed età. Tra di essi spiccano il Palazzo Ducale, che risale al XV secolo, oggi di proprietà comunale; Il Palazzo de Patto in zona castello e il Palazzo Tosto sopra lo spuorto di Via Sotto le Mura. Nelle strade confluiscono i vicoli, vanelle, una volta quasi tutti predisposti a gradinate di pietra, oggi, pavimenti in porfido con elementi decorativi e ciottoli di fiume.


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giovedì 20 febbraio 2025

Buonalbergo

 Buonalbergo


Buonalbergo sorge sul ripido fianco del monte San Silvestro, nei pressi del vallone che dal colle detto monte Chiodo scende nella valle del Miscano. Il suo territorio è compreso tra un'altitudine di 222 e 863 m s.l.m., pari ad un'escursione altimetrica di 641 m.

In passato si era ipotizzato che nei pressi di Buonalbergo sorgesse l'antica città di Cluvia, chiave delle comunicazioni interne fra gli Irpini e i Pentri, e fra i Caudini e i Dauni, per mezzo di quelle vie a pascoli, dette tratturi. Si era anche pensato che il casale Montegiove, distrutto da Guglielmo II al tempo dei Normanni, costituisse il relitto dell'antico centro. Ricerche più recenti hanno permesso però di localizzare Cluvia nel Sannio carricino (attuale Abruzzo).

Attualmente si ritiene invece che Buonalbergo sia stata fondata da alcuni profughi degli antichi villaggi di Mondingo, Pescolatro e Faiella distrutti dai Barbari. Tali profughi ospitati dai Cenobiti della vicina chiesa di Santa Maria, sorta sulle rovine di un tempio pagano, avrebbero chiamato quel luogo Alibergo.

Ciò poté avvenire verso il 1000, poiché nella prima metà di questo secolo trovasi per la prima volta mentovato un Gerardo de Bonne Herberg, primo signore normanno dell'antica contea di Ariano.

Egli vien detto il Gran Conte e fu il primo a chiamare Roberto il Normanno con il soprannome di Guiscardo e gli diede in moglie la propria zia Alberada.

Sotto gli Angioini quella contea fu frantumata in pena per aver parteggiato con gli Svevi.

Sotto gli Svevi fece parte del giustizierato di Principato Ultra, quindi passò successivamente ai Baroni di Tocco, ai Mansella, ai Macedonio, ai De Sabran, ai Guevara, agli Spinelli col titolo di marchesi (1623) ed ai Coscia.

Il paese prima sorgeva a valle, poi per essere stato danneggiato da una frana fu riedificato in alto verso il 1525.

Nel quadriennio 1743-46 il suo territorio fu soggetto alla competenza territoriale del regio consolato di commercio di Ariano nell'ambito della provincia di Principato Ultra; in seguito, al tempo del divisione amministrativa regno delle Due Sicilie, fu aggregato circondario di Paduli del distretto di Ariano nella stessa provincia di Principato Ultra.

Oggi il paese è strutturato in tre parti, una sorta di ferro di cavallo che avvolge il centro storico con le punte rivolte verso il torrente Santo Spirito; dalla parte bassa troviamo in ordine il rione Terravecchia dove è concentrata l'attività amministrativa, il rione Casale centro spirituale del paese nonché zona storicamente più importante ed infine Santjanni, zona commerciale del paese.


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sabato 15 febbraio 2025

Cronaca

Il Castello

Sinossi di un articolo del Prof. Nicola Fiorino Tucci  apparso sul da Bitonto del 14 febbraio, con una foto iniziale di una sciala al mare, dove si curavano e si mangiavano cozze nere sul mare di Santo Spirito, dal 1928 quartiere di Bari, nei pressi del Castello.

Un confronto fra Bari e Bitonto, fra Storia, Aforismi e Curiosità.

Ad onor del vero, dichiara l'articolista, la nostra città una marina ce l’aveva, quella di Santo Spirito, ceduta proprio al capoluogo nel 1928.

Fra le espressioni dialettali baresi é famosa più per la sua pronuncia cantilenante che per il suo significato (niente affatto chiaro). Viene spesso ripetuta con un leggero accenno di malizia per sottolineare l’assurdità del confronto fra una grande capitale europea, Parigi ed un capoluogo regionale, Bari,  un paragone che capovolge ironicamente i ruoli effettivi.

Leggendo o ascoltando l’espressione “Cce Parigi tenesse lu mère fosse ‘na piccola Bére” c’è da chiedersi  perché si confronti Bari con Parigi, cioè quale legame possa unire due città profondamente diverse in tutto. Che Bari abbia avuto rapporti stretti con la Francia, del resto, è risaputo: basti pensare alla dominazione angioina, sul finire del Medioevo e, agli inizi dell’ Ottocento, a quella napoleonica, che ha dato una forte impronta urbanistica al capoluogo pugliese. Il quartiere “murattiano”, voluto da Gioacchino Murat, cognato dell’Imperatore, con il suo perfetto impianto ortogonale è, ancor oggi, il centro di Bari e rappresenta una delle migliori espressioni di un’urbanistica razionale e moderna.

È, poi, innegabile, continua l’articolista, che la pronuncia barese del termine ‘mère’ sembri più una parodia della lingua francese che vera voce dialettale tanto da determinare una distorsione fonetica del nome “Bari”, niente affatto vernacolare: “tenesse lu mére, fosse na piccola Bére (e non Bbàre, come dovrebbe)”. Colpisce, inoltre, l’uso di ‘piccola’, aggettivo che il dialetto di solito traduce con “p’ccenunne” e pospone al nome cui si riferisce. E qui, invece, suona molto italiano anche perché è anteposto al nome: “piccola”, appunto, non “p’ccenunne”.

Però, nel contesto citato prevale soprattutto l’esagerazione che riduce Parigi ad una ‘piccola Bari’. Ciò precisato, torniamo, comunque, al paragone iniziale che sottolinea un dato di fatto: Bari ha quel mare che a Parigi manca. Ma cosa significa una simile affermazione?

Chiaramente, essa esprime il malcelato orgoglio con cui i Baresi vantano il mare come elemento distintivo della propria città: quasi a dire che una vera città non possa prescindere dall’avere un affaccio sul mare. […]

Il detto popolare ribadisce, insomma, una vocazione marinara del capoluogo pugliese, del resto, storicamente attestata, sin dal Medioevo, dalla sua rivalità con Venezia nei traffici e nelle influenze politico-commerciali sul mare Adriatico. E sul vicino Oriente, da cui proviene quel Nicola, vescovo di Myra in Turchia, che, portato in Puglia con un sequestro lampo, diventa Santo patrono di Bari sul finire dell’XI secolo, pur mantenendo un carattere volutamente esotico perché di carnagione scura (ad onor del vero, un turco ha la pelle chiara). Un Santo ben presto celebrato come autore di miracoli spettacolari (riempie le navi di granaglie, resuscita i bambini fatti a pezzi, garantisce la dote a tre pulzelle …) e come taumaturgo e miroblita (nella sua tomba cola la manna). Ma, soprattutto, “(San Nicola) va per mare … va per mare e spira il vento”: cantano i fedeli durante la sua festa mentre la sua statua è portata sulla barca dai marinai. A voler ribadire, orgogliosamente, il legame stretto di Bari col mare.


Fonte da Bitonto del Prof. Nicola Fiorino Tucci 14.2.25

giovedì 13 febbraio 2025

Acquedotto Pugliese

 

Viadotto dell'Acquedotto Pugliese sulla Murgia
Foto ripresa  in un viaggio educativo-didattico, 
quando insegnavo  nella Scuola Media Statale "C. Sylos"


L'acquedotto pugliese è l'infrastruttura pubblica di approvvigionamento idrico-potabile della regione Puglia e di alcuni comuni della Campania.

Storia

Costruzione del canale principale

L'acquedotto pugliese è costituito da un complesso di infrastrutture acquedottistiche tra loro interconnesse.

La prima importante realizzazione, che tuttora rappresenta la spina dorsale dell'intero sistema acquedottistico pugliese, è il canale principale, alimentato dalle acque del Sele e, a partire dal 1970, anche da quelle del Calore.

La sua costruzione, fortemente voluta, tra gli altri, da Antonio Jatta, fu avviata nel 1906, con l'intento di risolvere il millenario problema della penuria d'acqua nella regione: già Orazio descriveva la Puglia come terra assetata: siderum insedit vapor siticulosae Apuliae (arriva alle stelle l'afa della Puglia sitibonda).

Infatti, non essendo il sottosuolo pugliese ricco di acqua facilmente estraibile, da sempre veniva adoperata l'acqua piovana raccolta in cisterne, che non garantivano quantità sufficienti e la necessaria prevenzione da epidemie.

L'opera venne caldeggiata da alcuni deputati pugliesi che ottennero la creazione dapprima di una commissione di studio cui seguì il finanziamento e l'affidamento dei lavori in concessione, a seguito di una gara internazionale.

La realizzazione dell'opera fu possibile grazie all'utilizzo di ingenti mezzi finanziari (125 milioni di lire dell'epoca) e materiali, per cui non mancò chi ebbe a pronosticare l'irrealizzabilità della stessa.

La galleria di valico dell'Appennino, da Caposele a Conza fu ultimata nell'anno 1914. Essa ha il nome di Galleria Pavoncelli. La sua lunghezza, al momento della costruzione era di 12 750 m (allora superata per lunghezza solo dal Frejus, Gottardo e Sempione). Nello stesso anno 1914 furono già alimentati con la sua acqua alcuni paesi della Puglia. Dapprima convogliò le acque del Sele; in seguito riuscì a convogliare dentro di sé anche i 2 000 L/s delle acque del Calore per una portata complessiva di 6 500 L/s.

A Bari la prima fontana fu inaugurata in Piazza Umberto I il 24 aprile 1915, pochi giorni prima dello scoppio del primo conflitto mondiale. Solo verso la fine del conflitto i lavori ripresero per completare alcuni tratti urbani, e l'acquedotto raggiunse le zone di Brindisi, Taranto, Lecce e, con la realizzazione della diramazione primaria per la Capitanata, anche Foggia.

Nel primo dopoguerra, e successivamente durante il fascismo, furono realizzati altri tronchi a servizio di zone non ancora raggiunte dall'acquedotto, costruite fontane d'approvvigionamento in ogni città e paese, costruita una fitta rete capillare di tubazioni per cercare di raggiungere ogni centro abitato. Tra i principali tronchi realizzati tra le due guerre, il principale è denominato Grande Sifone Leccese e costituisce il prolungamento del canale principale fino alla cascata monumentale di Leuca che termina nel mare, utilizzata occasionalmente come scarico terminale della grande opera acquedottistica, è realizzata ai piedi del santuario di Santa Maria di Leuca, ultima propaggine del Salento. L'opera terminale fu inaugurata poco prima dell'inizio della seconda guerra mondiale dallo stesso Benito Mussolini, che volle personalmente la costruzione della cascata monumentale. Per l'occasione, lo stesso Mussolini donò la colonna romana installata di fronte a essa a sancire la fine di una delle più grandi opere di ingegneria idraulica del mondo, come monito delle vittorie dell'uomo che col suo duro lavoro ha portato l'acqua in una terra arida, quale era la Puglia prima dell'Acquedotto.

Ai piedi della cascata monumentale, di fronte alla colonna romana, fu collocata (per imposizione del governo fascista) una lastra con incisa la sagoma della Regione Puglia e i tratti principali percorsi dall'acquedotto pugliese con una serie di dati su portata e lunghezza complessiva dell'opera. Sono stati tuttavia asportati, nel secondo dopoguerra, i simboli e i riferimenti al fascismo un tempo presenti sulla targa, essendo stata usata l'opera come un mezzo di propaganda del regime fascista.


28.luglio 2023

Fonte Wikipedia


lunedì 10 febbraio 2025

Recensione.

 

“Racconti dal Mare” di Giuseppe Devanna

 

Raccontare dal mare significa fare un viaggio dal mondo dove, l’orizzonte, più ci si allontana dalla terra e  più si perde nell’infinito, in altre parole facendo nostra la memoria di husserliano ricordo, l'orizzonte è una linea immaginaria che si sposta in continuazione, perciò non la possiamo afferrare, toccare, misurare, quantificare, raggiungere, non la possiamo sottoporre alla logica categoriale, possiamo solo immaginarla. L'Immaginazione o Presentificazione, come la chiama Husserl, è molto importante nel mondo della vita, perchè le nostre esperienze vissute non possono essere imprigionate dalle dodici categorie Kantiane; le categorie di Husserl, come la linea dell'orizzonte, cambiano, invece, in continuazione, sono infinite e l'immagine dell'orizzonte ci fornisce l'idea del continuo movimento, delle continue trasformazioni o modificazioni, che caratterizzano il trascendentale, ossia la nostra Psiche, in altre parole, la nostra Anima.

E proprio questo vuole raccontarci  il Nostro autore scavando dalla sua memoria l’avventurosa vita di suo padre, il compianto Arcangelo Devanna, dalla sua nascita fino alla sua dipartita da questo mondo, teatro di avvenimenti belli come la nascita di un nuovo essere vivente, appunto il Padre, nato a Bitonto il 2 aprile 1921 con  il carattere del segno zodiacale ariete; secondo l’astrologia, un soggetto ariete è energico, focoso, esuberante, impulsivo, dotato di gagliarda e straordinaria carica vitale, che si traduce a volte in “prepotenza”, tendenza a dominare, individualista e ambizioso, con il pregio della schiettezza e della sincerità. Una esuberanza nel senso buono, cioè amante delle cose che vuole ad ogni costo, finchè non le ottiene. Il Nostro, infatti, dispone in questo senso la sua vita, attraverso i viaggi che intraprende durante la sua gioventù, sommergibilista della Regia Marina e le continue tappe compiute in questo iter avventuroso e affascinante, già prima della seconda guerra mondiale, negli anni di formazione professionale, con l’arruolamento volontario il giorno 1 ottobre 1938 presso le Scuole C.R.E.M. “ San Bartolomeo di La Spezia” dove frequenta in qualità di allievo il corso di elettricista, fino al 15 luglio 1939 (Pag. 10), dove gli allievi inparavano la tecnica professionale delle varie discipline e soprattutto i valori etici e militari che caratterizzavano la Regia Marina (Pag. 11). Con la prima destinazione operativa a bordo di una nave, iniziava il “suo piede marino”. Nel linguaggio della marina, significa avere il piede marino, di persona che, oltre a non soffrire il mare, sa mantenere l'equilibrio nei disordinati movimenti che una nave subisce in mare mosso; analogamente, farsi il piede marino, è acquistare tale capacità, soprattutto con una lunga e continuata navigazione. (Pag.12)

La sua prima destinazione operativa fu la Regia Nave appoggio idrovolanti “Giuseppe MIRAGLIA” Dal 16 luglio 1939 al 1 settembre 1939. Nave officina, di fatto era una portaerei e dopo la notte di Taranto, venne inviata nel Mediterraneo.  Con Notte di Taranto nella storiografia italiana si fa riferimento all'attacco aereo avvenuto nella notte tra l'11 ed il 12 novembre 1940 contro la flotta navale della Regia Marina dislocata nel porto di Taranto, da parte di aerosiluranti imbarcati della Royal Navy britannica. L'operazione (con nome in codice Operation Judgement) si risolse con una netta vittoria da parte della flotta britannica, che al costo di due aerosiluranti, sferrò un importante colpo materiale e morale alla flotta italiana e alla reputazione del regime fascista. (Pag. 15) Dopo la guerra venne utilizzata per il rimpatrio di prigionieri e poi utilizzata come nave caserma e nave officina, per essere demolita negli anni cinquanta. (Pag. 14). La Regia nave corazzata ANDREA DORIA fu la sua seconda destinazione dal 2 settembre 1939 al 29 marzo 1941. L’Andrea Doria pur se attaccata fu fortunatamente risparmiata. (Pag. 16). Dal 30 marzo 1941 al 28 agosto 1941 fu trasferito presso la MARISCUOLASOM POLA Regia Scuola sommergibilisti. I sommergibilisti sono marinai di eccezionale professionalità, con una grande dose di coraggio, umanità e voglia di crescere professionalmente. (Pag. 17) Altra destinazione fu MARISTASOM Trapani Comando Stazione Sommergibili dal 29 agosto 1941 al 1 ottobre 1941, in attesa di imbarcarsi su uno dei sommergibili assegnati a quella base. Molto intensa l’attività dei sommergibili, con risultati non proprio eccellenti. (Pag. 19)) La sua prima missione da sommergibilista fu sul Regio Sommergibile Fratelli Bandiera dal 2 ottobre 1941 al 2 novembre 1941. L’attività operativa del sommergibile fu molto intensa dal 3 ottobre 1941 al 20 ottobre, per essere assegnato in seguito a Taranto all’annuncio dell’armistizio (Pag. 22) Dal 3 novembre 1941 all’ 1 marzo 1942 fece rientro al MARISTASOM di Trapani, ma sentiva molto la mancanza della famiglia (Pag.24 Dal 2 marzo 1942 al 30 gennaio 1943 fu trasferito sul Regio Sommergibile Enrico TOTI con 93 uscite operative dal Giugno 1942 al 28 novembre 1943 (pagg. 26-27). Dal 31 gennaio 1943 al 28 febbraio 1943 operò sul Regio Sommergibile FR111 (F707) preda bellica ex francese Phoque. Drammatico il racconto dell’affondamento del sommergibile da parte della Royal Air Force il 28 febbraio, ritrovandosi in mare per molte ore, assieme ad altro commilitone, cercò di tenere a galla un compagno ferito, ma lasciandolo al suo destino, perché vinto dal freddo. Fu soccorso da idrovolanti tedeschi e portato in ospedale ad Augusta dove rimase diversi giorni, prima di riprendere servizio. Per il sottocapo elettricista Arcangelo Devanna fu senza dubbio un’esperienza terribile, ma non l’unica, vissuta durante la guerra. (Pagg 28–29) 

Dal 3 maggio 1943 al 12 settembre 1943 fu operativo sul Regio Sommergibile SERPENTE del quale fu drammatico l’autoaffondamento, per non consegnare il battello al nemico (Pag.35) Scoraggiato e senza ordini, è a disposizione dal 13 novembre 1943 al 20 gennaio 1944 presso il MARIDIST Bari Distaccamento Regia Marina. Dal 21 gennaio 1944 al 4 marzo 1944 è presso il MARIDEPO Taranto Deposito Regia Marina dal 5 marzo 1944 al 5 ottobre 1944 al MARISTASOM Taranto Comando Stazione Sommergibili dal 6 ottobre 1944 al 21 settembre 1945 sul Regio Sommergibile JALEA. Il suo motto era “Aude et vinces” (osa e vincerai) (Pag. 40). Dal 16 ottobre 1944 effettuò varie missioni, fino al suo disarmo a guerra finita (Pag. 45)

Le successive  destinazioni operative furono presso il MARISATOM Taranto Comando Stazione Sommergibili dal 22 settembre 1945 al 8 novembre 1945. Dal 9 novembre 1945 al 20 agosto 1947 Nave corazzata CAIO DUILIO per attività addestrative e di rappresentanza (Pag. 47) Dal 21 agosto 1947 al 2 gennaio 1948 sulla Nave torpediniera “Giuseppe Cesare Abba”. Dal 3 gennaio 1948 al 10 febbraio 1948 presso MARIPEDO Taranto Deposito Marina Militare. Quindi, 11 febbraio 1948 al 15 dicembre 1948 sulla Nave corazzata GIULIO CESARE. Dal 16 dicembre 1948 al 26 febbraio 1949 sull’ Incrociatore EUGENIO DI SAVOIA. Dal 29 febbraio 1949 al 30 novembre 1949 sulla NAVE cisterna acqua costiera ARNO.   

Naturalmente,  l’Autore fa una descrizione dettagliata dell’attività operativa delle navi sopraccitate con la  coordinazione dei valorosi equipaggi.  (Pagg. 46 – 56) Dal 1 dicembre 1949 al 30 novembre 1952 MARINA BRINDISI Batteria BRIN Attività, questa, svolta sulla fascia costiera a terra, come le successive dal 1 ottobre 1952 al 8 marzo 1953 presso la MARISCUOLA di Taranto e la MARIFEDE Taranto Comando Difesa Militare Marittima dal 9 marzo 1953 al 30 giugno 1953. (Pagg. 57 – 60)

Congedato il 30 giugno 1953 e trasferito all’impiego civile di Stato, presso il Provveditorato agli Studi di Foggia e Provveditorato agli Studi di Bari. [E senza enfasi o giri di parole, sono molti gli operatori scolastici di quegli anni che lo devono ancora ringraziare per ciò che ha fatto in loro favore]. (Cit. mia). Fino al pensionamento per raggiunti limiti di età nel 1986 (Pag.61)

L’Autore, infine, cita le promozioni e i Riconoscimenti ricevuti da suo Padre dallo Stato. (Pag. 62)

Un’avventura ed un racconto nato dall’amore filiale del figlio Giuseppe,  anche lui marinaio per passione, sottufficiale della Marina Militare dal 1973 al 1981.


Titolo | Racconti dal mare

Autore | Giuseppe Devanna

ISBN | 979-12-22777-51-1

 © 2024 – Tutti i diritti riservati all’Autore

 

Lorenzo 7 Febbraio 2025.


domenica 5 gennaio 2025

Aurora boreale

Aurora boreale in Norvegia



 Aurora Boreale 


L'aurora polare è un fenomeno caratterizzato visivamente da bande luminose che assumono un'ampia gamma di forme e colori, rapidamente mutevoli nel tempo e nello spazio, di solito di colore rosso-verde-azzurro, detti archi aurorali, causato dall'interazione di particelle cariche (protoni ed elettroni) di origine solare (vento solare) con la ionosfera terrestre (atmosfera tra i 100-500 km): tali particelle eccitano gli atomi dell'atmosfera che diseccitandosi in seguito emettono luce di varie lunghezze d'onda. Viene denominata aurora boreale qualora si verifichi nell'emisfero nord (boreale), mentre il nome aurora australe è riferito all'analogo dell'emisfero sud (australe).


Fonte Wikipedia

mercoledì 1 gennaio 2025

Renga

 

Renga



Struttura e Vincoli del Renga

Un renga consiste di un numero variabile di stanze: la prima si chiama hokku ("il verso che comincia") e consiste di segmenti fonetici di 5, 7 e 5 (17 in totale) morae. Segue il wakiku ("verso che corre vicino") che conta due segmenti di 7 e 7 (14 in totale) sillabe. Successivamente, si aggiunge nuovamente un ku lungo di 17 sillabe, che a sua volta viene seguito da un ku breve di 14 sillabe. La struttura può continuare a ripetersi diverse volte. L'ultimo ku del renga si chiama ageku ("verso che chiude").


Fonte Wikipedia